Intervista a Yuval Avital e Benedetta Manfriani | Progetto Riva 2018 / Tempo Reale Festival 2018 (Y)

di Redazione

In occasione della performance di Rivers, composta da Yuval Avital ed eseguita dal coro CONFusion, in programma durante il Tempo Reale Festival 2018, sezione Y,  e commissionata dal Progetto RIVA 2018*, abbiamo intervistato i due protagonisti del concerto: il compositore Yuval Avital, e la musicista e performer Benedetta Manfriani, fondatrice, direttrice e animatrice del coro.

musicaelettronica.it: Yuval, Rivers è il lavoro che presenterai in una nuova edizione per Progetto RIVA 2018 al Tempo Reale Festival nella sezione Y il prossimo 30 settembre assieme al coro CONfusion. Vuoi parlarcene? Puoi raccontarci di come hai lavorato e lavorerai con i musicisti del coro?

Yuval Avital: Noi siamo tutti figli dell’acqua. Nelle nostre vene scorre l’acqua. Non siamo molto diversi dai pomodori. Abbiamo dentro questo dono di vita creato dalla materia acquatica. Tutti i fiumi e tutte le acque, idealmente, alla fine diventano una cosa sola. Questo crea un sistema, un macrosistema che ci unisce. Così accade idealmente anche a noi, in quanto “umanità”. In ebraico, non si dice “acqua”, ma “acque”, al plurale. Si dice, per esempio: “Un bicchiere di acque”. Si pensa all’acqua come una pluralità perché l’acqua è costituita sempre da più acque, ovvero gocce su gocce che creano una molteplicità complessa che scorre e che si muove. Il nome “fiume” si avvicina molto al mio stesso nome, che vuol dire torrente. È quindi un nome acquatico. Il fiume produce, quando scorre, non quando è “esausto” durante l’estate: un rumore bianco che, similmente al colore bianco, è un suono che contiene tutti i suoni. I greci antichi andavano al fiume e lo ascoltavano per estrarre delle melodie. In realtà queste melodie ci sono, perché il suono del fiume ha tutte le frequenze dentro, è un suono complesso. Il fiume divide anche: ha due sponde. Però permette la navigazione, consente il movimento. Non è fermo, non è uno stagno o un lago.

Quindi, i fiumi di Rivers sono due: un fiume concreto, che in questo caso sarà il connubio del primo fiume, registrato alla Fondazione Pistoletto nel 2015, quando Michelangelo Pistoletto mi ha chiesto di creare questo lavoro, e il fiume Arno che passa qua a Firenze. Un fiume che a volte è semplicemente “il fiume”, altre volte invece passa in secondo piano rispetto a quello che c’è intorno, ovvero suoni, voci anche animalesche, ma anche il tram. A volte il suono del fiume è riprodotto in modo molto concreto, come se dicessi: “Ecco, è così”. Altre volte viene riprodotto in modo distorto o modulato. Quindi uno dei due fiumi di Rivers è questo concreto, registrato. Dall’altra parte c’è un fiume umano, che viene evocato da una vocal crowd, una folla vocale che si configura come un anti-coro in un certo senso, perché è un coro che non fa quello che solitamente fa un coro. Voglio dire: per far parte di questo coro non c’è bisogno di saper leggere la musica e non c’è bisogno che ci sia una gerarchia, sia dal punto di vista della divisione delle voci (non c’è un pentagramma di riferimento), sia da quello dell’organizzazione. Non c’è un pentagramma, ma c’è una serie di azioni sonore, musicali e gestuali che spaziano tra vari tipi di situazioni. È un’operazione che ricerca una specie di “veritarietà”, nel senso che c’è una scoperta di quello che è vero per il performer stesso, che in realtà è co-compositore dell’opera.

Il mio lavoro in Rivers ha sempre avuto come obiettivo quello di lasciare spazio a Benedetta [Manfriani, direttrice del coro CONfusion, ndr], che a sua volta prende quello che io ho in mente e lo trasforma nel suo Rivers. Nel suo lavoro, che mi sembra molto profondo e molto dettagliato e che coinvolge i suoi compagni e membri del coro che ha creato, vengono poste anche delle domande: perché? Come mai?

Benedetta, il CONfusion è un progetto molto particolare, ovvero un coro composto da rifugiati provenienti da diversi paesi del mondo e che lavora su programmi di musica tradizionale e contemporanea. Potresti raccontarci com’è nato?

Benedetta Manfriani: In Mugello, negli ultimi anni c’è stato un arrivo massiccio di migranti. Quando mi trovavo là, vedevo un sacco di persone che passavano la vita per strada o senza fare niente. Erano tutti ragazzi che avevano l’età delle mie figlie. Per me, cantare è una delle cose più belle della vita e quindi ho pensato che anche per loro potesse essere bello. Quindi, insieme all’associazione che gestisce lo SPRAR di Borgo San Lorenzo, abbiamo studiato questo progetto e tirato su un gruppo di persone composto non solo di migranti ma anche persone che già abitavano in Mugello e che non sono solo italiani. Ci sono stati tedeschi, francesi, inglesi e altre nazionalità.

Composto il gruppo, abbiamo cominciato a provare tutte le settimane. Inizialmente ci siamo dedicati alla musica popolare. Diciamo che questo gruppo non è un vero coro nel senso tradizionale del termine. È più un gruppo di performer, perché ci piace fare anche cose diverse come performance, spettacoli silenziosi e altro. Preparare quest’opera di Yuval è stato un lavoro bello, intenso e molto toccante. Ha smosso tante emozioni nelle persone. Siamo un “coro anti-coro”, perché io faccio parte del coro stesso, non sono una direttrice nel senso tradizionale del termine, non mi piace. Io, fondamentalmente, faccio tutto insieme agli altri. Come dicevo, questo è stato un lavoro molto intenso perché ogni elemento che cercavamo di comprendere in modo profondo, ha scatenato delle polemiche, a volte anche accese. Comunque, il lavoro ha suscitato emozioni forti perché parliamo di temi molto intimi e molto seri che riguardano la vita di tante persone, in particolare dei migranti.

Yuval, una parte importante della tua ricerca musicale consiste nella combinazione di musiche tradizionali con mezzi e linguaggi propri della musica contemporanea, come per esempio le nuove tecnologie e la multimedialità, ma anche nel coinvolgimento di artisti di tradizione popolare, oltre alla composizione di opere per ensemble indigeni. Come si svolge la tua ricerca di musiche e artisti geograficamente distanti da te? E quali sono le caratteristiche che cerchi nei mondi sonori che decidi di includere nei tuoi lavori?

Y.A.: Io arrivo da una città che è un incrocio estremo. Gerusalemme è una città dove il deserto, l’est e l’ovest si incontrano e fanno anche a botte tra di loro ogni tanto. È una città che “suona” da tutte le parti. Per esempio, il Santo Sepolcro è una cosa pazzesca. Quando arrivi a Pasqua al Santo Sepolcro ci sono sette cardinali che iniziano a cantare, poi vengono spinti dagli ebrei, dai copti, dagli etiopi, dagli armeni. Poi arrivano i guardiani del Santo Sepolcro, che sono palestinesi, e quindi musulmani che aumentano ulteriormente la confusione. C’è un lato molto forte legato alla percezione sonora che mi proviene proprio dalla mia città natale. Dentro tanti concetti, che sono concetti relativamente nuovi nella musica contemporanea, come per esempio l’eterofonia ovvero la coesistenza di sonorità simili ma diverse, o la microtonalità, sono cose normalissime a Gerusalemme. Se tu vai al Muro del pianto quando ci sono i “grandi lamenti”, il ronzio di canti dura tutta la notte. Quindi, il mio percorso è rivolto alla ricerca della “veritarietà”, anche riguardo agli arrangiamenti dei canti popolari. Le folk songs sono opere anti-esotiche. Questo perché detesto l’esotismo e lo trovo un atto profondamente colonialista e razzista. Sto cercando il dialogo e organizzo collaborazioni con diverse figure, come un Lama della tradizione Bon, tibetano, come artisti noise o anche infine non musicisti. Il mio approccio non è semplicemente post-modernista. Non è che dico, per esempio: “Qui metto due cantori sardi con una chitarra elettrica”. C’è sempre dietro una ricerca strutturale molto approfondita, c’è una ricerca dell’archetipo, del simbolo. Possiamo dire che c’è una ricerca della magia, chiamiamola così, ovvero dell’energia intangibile. Poi, di nuovo, nel mio lavoro c’è una ricerca della “veritarietà”, di questa energia che non è esperienziale, non è concettuale. Non è una formula, è invece un’esperienza vissuta. Io vorrei avvicinarmi il più possibile alla cosa senza mostrare la cosa. In Rivers, il pubblico è circondato, è immerso all’interno dei fiumi, almeno idealmente, e lì rimane anche intrappolato e costretto a fare un incontro umano, che può anche essere vissuto male, malissimo, da idioti. Quando c’è stata l’inaugurazione del terzo paradiso, a un certo punto delle persone hanno cominciato a parlare di sci, di luoghi dove sciare, in mezzo alla performance, ed è stata una cosa abbastanza scandalosa. Si sono praticamente isolati, perché questo incontro (si dà delle pacche sul corpo), con questo, il toccarsi è il più grande tabù dell’Occidente. Il tocco, la distanza, è tutto rotto. Venendo al punto importante: è facile dire: “Siamo tutti uguali, ma diversi”. Non voglio entrare troppo nella polemica, ma ci sono migranti e migranti… Anche io sono un migrante, no? Sono venuto in Italia a studiare musica, mi sono trovato bene, ho iniziato a fare delle cose. Poi ho sposato un’italiana e vivo in Italia. Dall’altro lato, ci sono rifugiati, ci sono delle persone che se tornano a casa, dal paese dove provengono, muoiono. Io ho degli amici che sanno che non vedranno più la loro madre. Qui, in questo lavoro, chiedo, evitando completamente la pornografia del dolore perché è una cosa che detesto, chiedo una verità controllata, verificata. Anche quando ho lavorato con dei rifugiati in fuga perpetua, ma anche con Liliana Segre, ho sempre pensato che la memoria è come un rubinetto: bisogna saperlo aprire fino al punto in cui si può reggere la pressione. Loro, i rifugiati, recitano loro stessi. Non stanno recitando la parte di qualcun altro. Per me è stato anche interessante, perché il primo coro era composto soltanto da rifugiati. Io ho soltanto messo la faccia. Adesso, con il coro CONfusion, sono curioso di vedere cosa accadrà.

img: © Roberto Deri

[*Il Progetto RIVA, ideato e curato da Valentina Gensini,  è realizzato in co-progettazione e con il sostegno del programma Sensi Contemporanei nell’ambito dell’accordo di programma quadro tra Regione Toscana, Mibac Direzione Generale Cinema e Agenzia per la Coesione Territoriale. In collaborazione con MUS.e, Le Murate Progetti Arte Contemporanea e Comune di Montelupo Fiorentino] 

Intervista a Yuval Avital e Benedetta Manfriani | Progetto Riva 2018 / Tempo Reale Festival 2018 (Y) ultima modifica: 2018-12-12T09:44:23+01:00 da giovanni

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