Speciale danza /2: Kinkaleri + Tempo Reale | seconda parte

di Giulia Sarno

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[Questo focus sul lavoro del collettivo Kinkaleri in collaborazione con Tempo Reale è il secondo capitolo di uno speciale su lavori di danza che utilizzano sensori di movimento associati all’elaborazione del suono in tempo reale. Il primo capitolo, dedicato al collettivo S’odinonsuonare, si può leggere QUI.]

Nel 2015, Kinkaleri e Tempo Reale hanno coprodotto uno spettacolo di danza dal titolo Real Good Time, che chiude il progetto All! di Kinkaleri. Il progetto è stato presentato al Tempo Reale Festival 2015 (6-7 ottobre 2015, Cango, Firenze). La collaborazione tra i due soggetti si è basata sulla scelta di utilizzare sensori di movimento per creare in tempo reale il suono dello spettacolo. Abbiamo intervistato Francesco Casciaro, compositore e musicista che ha curato il progetto per Tempo Reale, e Massimo Conti, Gina Monaco e Marco Mazzoni di Kinkaleri. Di seguito l’intervista ai componenti di Kinkaleri. L’intervista a Francesco Casciaro si può leggere QUI.

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Mi sembra che uno dei punti chiave del vostro lavoro con Francesco Casciaro sia la volontà di creare un’interazione complessa tra il gesto e la generazione dei suoni in modo tale che la relazione non fosse mai “1:1” – ovvero, produco un gesto, emetto di conseguenza un suono – ma che si creasse una  mappatura più complessa per cui lo spettatore non ha la percezione del singolo gesto legato al singolo suono: si tratta di un linguaggio più sotterraneo…

Marco Mazzoni Sì, diciamo a grosse linee sì. Abbiamo dato per scontato il procedimento, nel senso che lo abbiamo dato per acquisito.

Massimo Conti Esatto, non c’era la volontà di lavorare direttamente con l’oggetto ma di prenderlo come conseguenza.

La coreografia gestuale di Real Good Time | All! fa parte per voi di un percorso di lunga durata che viene da una strada molto più lunga che avete esplorato in questi anni, dunque si è trattato di far interagire un linguaggio per voi già acquisito ed esplorato con una nuova dimensione, ovvero quella della creazione del suono in tempo reale. Vorrei che mi parlaste di questa esperienza, se interpreto correttamente la prospettiva del lavoro. Quali sono i punti estetici fondamentali di questo incontro con la sonorizzazione?

M. C. Real Good Time fa parte di All!, che è un progetto che si fonda sull’invenzione di un linguaggio coreografico direttamente costruito sul simbolo alfabetico, quindi ogni gesto corrisponde a un simbolo alfabetico. Ci siamo direttamente confrontati con la scrittura. Questa invenzione l’abbiamo poi testata, sperimentata in varie situazioni, da frammenti di citazioni a testi poetici a dialoghi, e alla fine ci è sembrato che, proprio in occasione di una relazione con un’entità come quella di Tempo Reale, potesse essere interessante lavorare sulla scrittura per la forma canzone. Quindi il testo di Real Good Time (di Lou Reed) è stato scelto per queste motivazioni, perché ci offriva delle occasioni in cui il testo si ripete, generando una ripetitività delle coreografie, e quindi ci permetteva – soprattutto quel testo – di verificare cosa poteva accadere dentro una forma di testo che è già utilizzata di per sé per una performatività quale è quella della canzone in un concerto. Questo è stato il punto di partenza.

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M. M. Sì, esatto, si tratta di un testo che si ripete molto, e dentro questo concatenarsi ripetitivo in realtà trovava tutta una serie di variazioni estremamente chiare da un punto di vista coreografico. In relazione al lavoro musicale c’è da dire che fino a quel punto, all’interno di All!, noi eravamo stati autori anche della produzione sonora, perché questo alfabeto in qualche modo rapportato alla coreografia ci offre la possibilità di poterla suonare pronunciando, per esempio, il suono della lettera o della parola stessa. Quello che ci sembrava interessante per Real Good Time, proprio perché si partiva da un testo musicale, era quello di accettare l’incognita della produzione sonora attraverso uno stratagemma che a sua volta diventava indipendente nella relazione con lo spazio e con la scena. Per questo, anche l’elemento musicale prodotto da qualcosa di apparentemente controllato dalle intese, dalle regole che ci eravamo dati, in realtà si rivelava fuori controllo perché stratificava talmente tanti eventi che era pressoché impossibile riconoscerli e gestirli dinamicamente e sonoramente. Ma anche semplicemente per il fatto che eravamo in due [Marco Mazzoni e Jacopo Jenna, ndr] ad azionare i sensori per la fuoriuscita del suono, e oltre ai due c’era una terza persona che poi li manipolava. Quindi l’idea era quella di lavorare dentro una griglia estremamente complessa e precisa che però, a sua volta, si rimetteva in gioco attraverso un lavoro approfondito sulla casualità e che, anche se strutturato, produceva ogni volta delle incognite che poi erano fondamentalmente il senso del lavoro.

Infatti dal punto di vista dello spettatore, quale io sono stata nell’occasione della performance a Cango – certo, avevo la consapevolezza del tipo di lavoro che avevo davanti, ma non ne avevamo parlato prima – si percepiva molto il fatto che il suono fosse prodotto dal vostro movimento, ma che allo stesso tempo ci fosse una grande percentuale di aleatorietà, che non aveste la consapevolezza precisa di quale suono avrebbero prodotto i vostri gesti.

M. C. Esatto, dal punto di vista live è una traccia percorribile, voglio dire che hai la struttura dello show e all’interno di questa ti muovi, essendo strumento e parte del movimento. Alla fine il contenitore generale, attraverso cui tutto questo voleva mostrarsi, è quello di un rapporto diretto col pubblico, che va via via a cambiare i piani nel momento in cui si sviluppano durante la performance. Se c’è una prima fase in cui la parte vocale può essere una sorta di dichiarazione di relazione col pubblico, anche dal punto di vista sonoro, dopo tutto questo diventa materiale e comincia tutto il “frullatore” dei tre elementi che si accordano e poi partono, e uno è consequenziale all’altro, e nessuno di loro è soltanto singolo.

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Gina Monaco Anche se poi la relazione gesto-suono era una relazione che apparteneva a Francesco [Casciaro], non è stata traslata sulla scena. Cioè, i danzatori non avevano la consapevolezza di che tipo di relazione ci fosse, c’era una relazione e questo era chiaro, però non abbiamo fatto un lavoro così puntuale. Quindi, in questo senso, per Francesco era una produzione, un’emissione di materiale che avveniva in tempo reale. Non è mai stata cercata la puntualità tra gesto e movimento, se non per Francesco nella programmazione dello strumento.

M. M. Però allo stesso tempo, pur non avendo cercato la puntualità, in qualche modo la puntualità poi è arrivata, perché la produzione sonora che è nata sulla scena ha poi fortemente condizionato la dinamica nostra, per cui è veramente un giro circolare. Dunque è vero, non c’è consapevolezza nel senso di “io mi muovo e produco questo”, però poi quel caos e quella produzione sonora che questo agire causa, in realtà diventa la traccia su cui anche il movimento stesso si ri-appoggia. Per cui, in questa forma di caos composto, anche il corpo si ri-adagia perché, per esempio, partendo dalla struttura molto rigida dell’inizio, siamo arrivati a un’idea ritmica di un pieno sonoro che avviene verso la fine e che è determinante per dare il ritmo a noi danzatori; per cui, in tutta la parte coreografica verso la fine noi rientriamo nelle battute prodotte attraverso il nostro movimento, inconsapevoli di averle prodotte in quella maniera. Ci interessava arrivare a un culmine ritmico determinato dalla sovrapposizione di una serie di elementi. Quando si arriva alla ripartenza e parte la coreografia più composta, lì è la conseguenza di una stratificazione di sonoro che abbiamo contribuito a creare e che poi prende il sopravvento sulla scena, entra dentro il ritmo e quel ritmo diventa a sua volta la traccia su cui il nostro corpo nella coreografia si muove.

Certo, è un rapporto circolare.

G. M. Anche perché più del 90% del sonoro è prodotto live. Questa relazione tra il movimento e la produzione del suono è sempre molto stretta.

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Questa è stata per voi la prima volta che lavoravate con la sensoristica, o avete avuto altre esperienze?

G. M. Sì, mi sa di sì… Sì, la prima volta.

E sareste interessati ad approfondire questa strada, cioè vi è sembrata una strada che si sposa alla vostra estetica o è stata più una parentesi?

M. C. È stata un’esperienza interessante e importante. Considerando certe esperienze degli anni Novanta, per esempio quelle di Ariella Vidach in quegli anni lì in cui c’erano i sensori e lei muoveva musica e luci… C’era questa dimensione didascalica in cui era chiara la relazione immateriale che esiste tra un corpo e quello che può produrre a vari livelli. Noi questa cosa qui l’abbiamo subito data per acquisita dal punto di vista formale, l’idea della mostra delle possibilità per noi era un percorso poco interessante, proprio perché lo davamo per acquisito, per cui ci siamo detti “ok, diamola per buona e vediamo quello che succede”. All’interno del percorso di All! ci sta benissimo. Per quanto mi riguarda dipende ogni volta dal singolo progetto. Nel momento in cui scavalchi questa dimensione del ricercare questa relazione precisa tra suono e gesto, per noi ogni condizione è aperta: paradossalmente potremmo fare tutti gli spettacoli così o non farne nemmeno uno.

G. M. Certo, anche secondo me dipende dal progetto. Non siamo andati a ricercarlo, ma sicuramente nel momento della proposta lo abbiamo declinato in una situazione che era all’interno di un percorso. Tutti e due i soggetti coinvolti lavoravano con certe rigidità, sia noi col movimento in scena, sia lo strumento – appunto, i sensori, che hanno delle rigidità proprio strutturali. L’incontro è stato proprio in questo ambito live dove, in maniera diversa, dovevano connettersi e aprirsi ad altri sistemi. E forse questa è stata la parte più interessante della relazione.

M. M. Questo corrisponde anche molto a una serie di ricerche che portiamo avanti e che sono proprio quelle del lavorare direttamente sul risultato delle cose, quindi l’idea di accettare dei risultati come possibilità espressive, senza poi porsi troppe domande su cosa significano, ma farle funzionare il più possibile per creare delle risposte a delle problematiche che vengono messe in atto.

img: KINKALERI + TEMPO REALE Real Good Time | All! con Jacopo Jenna, Marco Mazzoni; suono Francesco Casciaro. Tempo Reale Festival @ Cango, Cantieri Goldonetta, 6-7 ottobre 2016 © Mario Carovani

Speciale danza /2: Kinkaleri + Tempo Reale | seconda parte ultima modifica: 2016-10-14T10:00:14+02:00 da Giulia Sarno

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